Prima o poi bisogna farlo. Prima o poi bisogna confrontarsi con lei, guardare la propria immagine riflessa nello specchio che la natura ci ha fornito fin dal momento in cui quella gambetta di cromosoma ha decretato la nostra sorte: donne. Prima o poi dobbiamo rassegnarci al fatto che sì, siamo uniche, è vero, ma nove mesi a nuotare nel liquido amniotico ci segnano per sempre, ci plasmano, ci cospargono qua e là di ineluttabili marchi di fabbrica che ci rendono indissolubilmente legate a un’altra donna: la mamma. La nostra mamma.
Ecco,
per me ora è arrivato quel prima, o quel poi.
“Come
sei bella!”, non ho idea di quante volte gliel’avrò detto. “Come sei bella!”,
non si possono contare le volte che me l’ha detto. Per molti anni ci siamo
guardate con ammirazione e amore, sì, ma come mondi diversi, lontani. Poi io
sono cresciuta e i dettagli hanno perso di importanza: l’essenza ha preso il
posto dei fronzoli ed è stato come se all’improvviso uno specchio appannato
fosse stato rimesso a lucido. “Siamo uguali, mamma!”, “figlia mia, sei proprio
come me!”. Una rivelazione, a volte commovente, a volte inquietante, ma pur
sempre una verità, una cosa con cui fare i conti.
Io
non so esattamente il giorno in cui ho capito quanto io e mamma ci somigliamo,
ma penso fosse una domenica, verso le tre. Non ci metto la mano sul fuoco,
magari era sabato o mercoledì forse… No, non ricordo proprio se era campionato
o coppa Italia, non posso sapere tutto. Coppa Uefa no, nel novantaquattro ero
troppo giovane per capire queste cose e dopo quell’anno non abbiamo più giocato
in Europa!
Insomma,
la rivelazione, la quadratura del cerchio, la nostra fusione perfetta, di una
mamma e una figlia così apparentemente diverse, si è palesata mentre giocava il
Cagliari. È in quel momento che ci trasfiguriamo, quando ci piazziamo lì,
vicino alla radio. Allora per chiunque
si fa evidente la nostra parentela strettissima. Abbiamo lo sguardo sicuro di
chi sa che deve fare la propria parte per portare a casa la vittoria, fede assoluta
che se noi parliamo vicino alla radio i giocatori sentiranno i nostri consigli
e ne faranno tesoro, l’esultanza che esplode all’improvviso, la concentrazione,
la scaramanzia, il divertimento assoluto nel vedere o anche solo ascoltare il
bel gioco. L’unica differenza è che lei evoca la decapitazione per gli
avversari, io l’impiccagione. E poi mamma non dice le parolacce, ma io non sono
educata come lei.
So
che da lei ho preso l’amore per il racconto, so che lei mi ha insegnato a
distinguere il bene e il male, so che solo lei può competere con la mia
testardaggine e so che lei mi ha trasmesso il bisogno di giocare. Giocare
sempre, con tutto, su tutto, per tutto.
Quante
storie in rossoblù mi avrà raccontato! E in quelle storie c’erano tutti gli
insegnamenti che servono a un bambino. In quei racconti c’era il bene, Gigi
Riva, e c’era l’uomo nero, Concetto Lo Bello. Le difficoltà da superare e le
delusioni da ingoiare. C’erano gli eroi romantici e c’erano quelli che
pensavano di poter comprare tutto con i soldi; c’era chi restava fedele e c’era
chi saltava sul carro del vincitore. C’era chi pensava di essere una Signora e
insultava i pastori (ma noi sappiamo che le vere Signore non fanno così), e
c’erano i pastori che finivano per essere i re del campionato. Poi c’era Nenè
che era proprio un bel ragazzino e c’era Cera, che poverino, eh, era bravo,
figlia mia (anche l’estetica va insegnata alle proprie bambine). Prima c’era la
tribuna alberata e poi c’era il sant’Elia, e mamma con il suo abbonamento in
poltroncine numerate, con un’amica, perché il calcio a volte è un affare tra
donne. E lo scudetto, la festa, le bandierine cucite dalla zia. E poi Gigi Riva
si era fatto male e si era iniziato a perdere, ed erano rimaste le partite di
serie C e di serie C2 da ascoltare alla radio, con passione immutata. E c’ero
io che chiedevo cos’è il fuorigioco, o se il calcio di punizione è che danno un
calcio al giocatore che ha fatto il fallo. E mamma rideva e mi spiegava. E
tifava. E con lei tifavo anche io,
ascoltando
i racconti della sua cinquecento caffellatte, con una strisciolina rossoblù che
aveva fatto disegnare per festeggiare lo scudetto. Mi viene in mente che io non
ho una macchina da dipingere, ma la prima volta che ho festeggiato con le
unghie rossoblù è stata nel 1998, per la promozione in A, con mister Ventura.
Non cambia molto.
Per
propiziare i risultati io indosso vestiti abbinati tra rosso e blu, lei porta
al mercato Gigia, l’orsacchiotta in tinta che io e Violet le abbiamo regalato
per il compleanno. E tutte e tre ci stanchiamo come matte per novanta minuti a
settimana come se fossimo in campo. E ridiamo, ci guardiamo e siamo uguali,
bellissime e leggere. Perché mamma ci ha insegnato a tifare il Cagliari e noi
siamo figliole obbedienti. Perché mamma ci ha insegnato a raccontare storie lievi
e sorridenti, e così abbiamo imparato a fare.
E
così da sempre, ogni volta che la guardo penso “che bella la mia mamma!”. Ora
so che anche io lo sono, perché sono uguale a lei: alla mia mamma rossoblù.
Valentina, marzo 2016
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